Giuriste in Genere
Sportello antiviolenza
Per garantire il diritto di difesa
a ogni donna che
subisce
atti di sopraffazione fisica o verbale
Corso di alta formazione per la prevenzione ed il contrasto alla violenza di genere - Edizione 2025
Sala Consiliare Municipio Roma III, Piazza Sempione n.15
6 lezioni maggio-giugno 2025.
Mercoledì 7, 14, 21, 28 maggio e 4, 11 giugno.
Ore 17:00-19:30
Le attività dell'associazione:
Nel 1864 in Parlamento, durante un dibattito sul nuovo Codice Civile, la giornalista e attivista dei diritti civili Anna Maria Mozzoni di appena 27 anni denunciava la condizione di subalternità delle donne e di come le donne fossero costrette a subire la legge senza poter concorrere a costruirla.
Pioniera del movimento di emancipazione delle donne in Italia, la Mozzoni ha contribuito ad approfondire studi e riflessioni sulla condizione femminile e a stimolare anni di lotta per il raggiungimento di decisive conquiste legislative.
Solo nel 2013, finalmente, la Convenzione di Istanbul, ratificata anche dall'Italia, ha riconosciuto come fondamentale il diritto delle donne di vivere libere da qualsiasi forma di violenza.
Eppure ancora oggi la questione femminile è lontana dall'essere risolta, le donne sono vittime di violenze, discriminazioni e comportamenti umilianti che ledono la loro dignità.
Per questo ci siamo unite e abbiamo creato l'Associazione, per mettere a servizio delle donne la nostra competenza professionale e la nostra esperienza.
Il 9 agosto 2019 è entrata in vigore la Legge n. 69/2019 recante “Modifiche al Codice penale, al codice di procedura penale ed altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”, ormai nota come “Codice Rosso”.
Non si tratta del primo intervento da parte del legislatore per contrastare il fenomeno della violenza sulle donne. Infatti, nel 2013 il Parlamento italiano ha ratificato la Convenzione di Istanbul (strumento internazionale giuridicamente vincolante sulla prevenzione e lotta alla violenza di genere) e, proprio in attuazione della Convenzione, ha approvato la Legge n. 119/2013 contente una serie di disposizioni innovative per assicurare tutela e giustizia alle vittime di violenza.
L'approvazione della Legge n. 119/2013, però, non ha portato la diminuzione dei casi di femminicidio, con la conseguente necessità di un ulteriore intervento da parte del legislatore proprio con la Legge n.69/2019.
Le novità introdotte dal Codice Rosso si pongono in continuità con la normativa previgente prevedendo misure più incisive di contrasto alla violenza domestica e di genere. La Legge n.69/2019, infatti, da un lato è tesa ad inasprire il trattamento sanzionatorio, in un’ottica di maggiore deterrenza, e dall’altro a rafforzare il sistema di tutela preventiva attraverso l’introduzione di un più ampio spettro di misure atte a contenere il pericolo di recidiva da parte dell’autore del fatto.
Rimane problematico, però, il rapporto tra contesti giudiziali diversi in particolare tra penale, civile e minorile poiché il pericolo è quello di trovarsi di fronte a decisioni discordanti rispetto agli elementi di prova acquisiti in sede penale.
Uno degli obiettivi del Codice Rosso è stato proprio quello di favorire uno scambio di informazioni tra Tribunale Civile e Penale sebbene le cronache ci dimostrino che ciò avviene ancora poco.
1. Le modifiche al codice di procedura penale
1.1 Le comunicazioni della Polizia Giudiziaria
Nell'apportare modifiche al codice di procedura penale il c.d. Codice Rosso persegue un primo fondamentale obiettivo che è quello di portare all'attenzione, nel più breve tempo possibile, dei Magistrati e di conseguenza anche delle Forze dell'Ordine nei casi di violenza di genere.
Infatti, l'art.1 della Legge n.69/2019 prevede che la Polizia Giudiziaria, una volta acquisita la notizia di reato relativa a delitti di violenza di genere, informi immediatamente il Pubblico Ministero, se necessario anche in forma orale. Senza ritardo, poi, provvederà ad inviare comunicazione scritta.
Viene, dunque, introdotto l’obbligo dell’immediata comunicazione della notizia di reato facendo venire meno ogni discrezionalità della Polizia Giudiziaria nell’informativa al Pubblico Ministero e l’eventuale ritardo nella comunicazione determina sanzioni di tipo disciplinare o penale.
1.2. L’ascolto della vittima
La vera innovazione, però, introdotta dal c.d. Codice Rosso è quella relativa all'assunzione di informazioni dalla persona offesa.
Infatti, il Pubblico Ministero deve assumere informazioni dalla persona offesa o da chi ha denunciato i fatti di reato, entro 3 giorni.
L'introduzione di tale termine rappresenta una innovazione assoluta e viene inserito nel comma 1 ter dell'art. 362 c.p.p. che, prima della sua introduzione, non prevedeva nessun obbligo del P.M.
Tale termine di 3 giorni può essere derogato solo ed esclusivamente in presenza di imprescindibili esigenze di tutela dei minori o per la riservatezza dell'indagine anche nell'interesse della persona offesa.
1.3 La formazione
Infine, particolarmente rilevante risulta la disposizione dell'art. 5 della legge 69/2019 che introduce la formazione degli operatori di Polizia. Infatti, la Polizia di Stato, l'Arma dei Carabinieri e la Polizia Penitenziaria devono attivare specifici corsi per il contrasto alla violenza di genere e domestica.
Si tratta di una innovazione poco discussa ma particolarmente rilevante se si considera la necessità di approcciare il fenomeno della violenza di genere in maniera integrata con una piena collaborazione di tutti gli attori in campo.
2. Le modifiche al codice penale
Numerose sono, inoltre, le modifiche apportate dal Codice Rosso al codice penale soprattutto attraverso la previsione di nuove fattispecie di reato.
2.1 Nuove fattispecie di reato
In primo luogo, la Legge n. 69/2019 introduce all'art. 387 bis c.p. il delitto di “violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla vittima”.
Si tratta di una misura concreta per contrastare la violenza e sottrarre le donne ai loro aggressori.
Infatti, sino all’introduzione del Codice Rosso la violazione delle predette misure comportava esclusivamente la sanzione processuale della sostituzione o del cumulo con altra misura più grave mentre, grazie alla Legge n. 69/2019, la violazione degli obblighi e delle prescrizioni inerenti una misura coercitiva, sebbene non detentiva, viene sanzionata autonomamente.
La riforma, inoltre, inserisce altre tre fattispecie di reato all'interno del codice penale.
L'art. 612 ter c.p. punisce il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate (più noto come revenge porn) prevedendo l'applicazione della pena della reclusione da uno a sei anni per chi, dopo aver realizzato tali video, invia, consegna, cede pubblica o diffonde tali immagini. Alla stessa pena soggiace chi, avendo ricevuto tali materiali, li diffonde senza il consenso delle persone rappresentate per creare loro nocumento.
Altra importante innovazione introdotta dalla legge è la previsione del reato di deformazione dell'aspetto mediante lesioni permanenti al viso. Il legislatore ha deciso, dunque, di creare una fattispecie autonoma di reato proprio per sanzionare la gravità di tali condotte che tanto allarme sociale hanno generato negli ultimi anni.
Infine, il legislatore ha inserito il reato di costrizione o induzione al matrimonio prevedendo un aggravamento della pena qualora il reato sia commesso ai danni di un minore.
2.2 Inasprimento delle pene
Inoltre, il legislatore ha previsto un aggravamento delle sanzioni già esistenti: per il delitto di maltrattamenti la pena passa da un minimo di tre anni ad un massimo di sette (precedentemente da due a sei anni); la pena per lo stalking passa da un minimo di un anno ad un massimo di sei anni e sei mesi e la violenza sessuale verrà punita con una pena compresa tra un minimo di sei ad un massimo di dodici anni di reclusione.
Con riferimento alla violenza sessuale viene inserita una nuova tutela per la vittima che potrà sporgere querela non più nel termine di sei mesi ma bensì di dodici mesi.
Avv. Lucrezia Colmayer – Foro di Roma
Oggi, 27 aprile 2022, la Corte Costituzionale ha esaminato le questioni di illegittimità costituzionale sulle norme che regolano l'attribuzione del cognome ai figli nell'ordinamento italiano, dichiarando l'illegittimità di tutte le norme che attribuiscono automaticamente il cognome del padre ai figli nati nel matrimonio, fuori dal matrimonio e adottivi. In particolare, la Corte ha ritenuto discriminatoria e lesiva dell'identità del figlio, la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre, affermando che entrambi i genitori devono poter condividere la scelta sul cognome del figlio, elemento fondamentale dell'identità personale. In attesa del deposito della sentenza nelle prossime settimane, il comunicato dell'Ufficio comunicazione e stampa della Corte Costituzionale chiarisce che le norme censurate sono state dichiarate illegittime per contrasto con l'art. 2, 3 e 117 comma 1, questo in relazione all'art. 8 e 14 della CEDU. In ragione della pronuncia, la regola diventa che il figlio assume il cognome di entrambi i genitori, nell'ordine dei medesimi concordato, salvo che decidano, di comune accordo, di attribuire solo il cognome di uno dei due (in mancanza di accordo resta salvo l'intervento del Giudice).
Finalmente si scrive una pagina importante nella storia del nostro ordinamento e del diritto di famiglia, che pone fine alla matrice paternalista e maschilista che fino ad oggi l'ha governata. La portata del cambiamento non è meramente formale ma delinea un cambiamento della cultura giuridica che afferma come nel diritto di famiglia non ci debba più essere una prevalenza del maschile sul femminile. Finalmente, in linea con i principi fondamentali della Costituzione, si supera la visione patriarcale e maschilista della famiglia che abbatte la discriminazione delle donne e dei figli, prevedendo che questi possano portare tutti e due i cognomi o uno dei due, ovvero solo quello del padre o solo quello della madre, senza più alcun automatismo o prevalenza del favor da sempre accordato al patronimico, che affonda le radici nella potestà maritale. Già in passato la Corte Costituzionale si era espressa in proposito, pertanto, con la pronuncia di oggi, è tempo di cambiare le cose, è tempo che il Legislatore intervenga per dettare regole chiare che diano alle madri e ai loro figli un diritto finora non riconosciuto. Fino ad oggi l'identità e la storia di ogni persona è stata scritta solo al maschile, in linea con la visone patriarcale che ha permeato l'ordinamento giuridico e il diritto di famiglia. Da oggi la madre è posta sullo stesso piano del padre, abbattendo ogni prevalenza del maschile sul femminile e riconoscendo un diritto storico finora negato. Oggi il principio della piena parità giuridica uomo – donna viene affermato con forza, nel rispetto non solo della Costituzione italiana ma anche della Carta Europea dei Diritti dell'Uomo, scardinando la concezione patriarcale della famiglia.
Avv. Angela Ianni – Foro di Roma
Il termine “gender gap” indica il divario tra generi, in riferimento a diverse sfere sociali: sanità, istruzione, lavoro. Con il termine “gender pay gap” si fa riferimento al mondo del lavoro e, in particolare, alla differenza media retributiva percepita, diversamente, da uomini e donne.
Come evidenziato in un articolo de Il Sole 24 Ore, gli uomini percepiscono, in media, circa il 20% in più rispetto alle donne. Inoltre, “l’analisi della professione svolta a cinque anni dalla laurea mostra che sono soprattutto gli uomini a occupare ruoli di alto livello, ossia di tipo imprenditoriale o dirigenziale (2,2% tra le donne e 3,9% tra gli uomini)”. Ne è un esempio il fatto che in Italia la percentuale di donne Ceo (chief executive officer ossia amministratore delegato) è scesa nel 2021 al 3% (lo scorso anno erano il 4%).
A livello europeo, il gender pay gap è del 14,1%: una donna viene remunerata il 14,1% in meno rispetto a un uomo. In Italia, la differenza in busta paga tra uomo e donna è del 23,7% contro una media europea del 29,6%. Da quanto emerge secondo i recenti dati EUROSTAT 2020, l’Italia si colloca in una buona posizione rispetto al valore europeo, con una media del 4,2 per cento, ma le donne sono molto lontane dall’uguaglianza di genere.
Secondo il Global Gender Gap Report 2021, corrisponde a 135,6 il totale di anni necessari per raggiungere la parità tra uomini e donne. Divario di genere molto più rilevante rispetto a quello del 2020, che aveva previsto 108 anni. Lo studio evidenzia come la pandemia abbia contribuito ad aumentare tale disparità. Difatti, la partecipazione delle donne nel mondo del mercato ha subìto un crollo dovuto alla pandemia, sia perché quest’ultima ha colpito maggiormente i settori occupati dalle donne (come turismo e ristorazione) sia per il carico del lavoro domestico sulle donne.
In generale, la disparità è dovuta al cosiddetto “tetto di cristallo”, ossia l’insieme delle discriminazioni, apparentemente invisibili, che ostacolano la parità di genere e la conseguente possibilità, per le donne, di accedere agli stessi diritti degli uomini nel mondo lavorativo.
Sono molti i motivi che, ad oggi, causano il divario di genere nel mondo del lavoro. Uno fra tutti riguarda la questione maternità. In particolare, il lavoro di cura, relativo a figli/figlie e alla gestione della casa, ricade in proporzione maggiore sulle donne. Ciò comporta che le donne sono messe nella condizione di dover scegliere tra la famiglia e il lavoro. Secondo il rapporto “Le Equilibriste: la maternità in Italia 2022”, di Save The Children, “il 42,6% delle mamme tra i 25 e i 54 anni non è occupata, con un divario rispetto ai loro compagni di più di 30 punti percentuali. Oppure, laddove il lavoro sia stato conservato, spesso si trasforma in un contratto part-time, per il 39,2% di donne con 2 o più figli minori. Nel primo semestre 2021, solo poco più di 1 contratto a tempo indeterminato su 10, è a favore delle donne”. Inoltre, “nel 2020 sono state più di 30mila le donne con figli che hanno Associazione Giuriste in Genere - Presidente: Viviana Straccia - Sede: Via Siena n. 2 - Roma - cell:339.4428713 - cell: 392.8294263 rassegnato le dimissioni, spesso per motivi familiari o perché non supportate da servizi sul territorio, carenti e troppo costosi, come gli asili nido”.
“A fronte del 61% di madri con un figlio minorenne occupate (3 donne su 5), gli uomini nella stessa condizione che hanno un lavoro sono l’88,6%. Il divario aumenta quando, entrambi i generi hanno due o più figli minorenni, con un totale di donne occupate del 54,5% a fronte dell’89,1% degli uomini”.
Tale disparità si evidenzia maggiormente nelle regioni meridionali. Infatti, il tasso occupazionale tra uomini e donne arriva a sfiorare il picco del 62,6% nel Mezzogiorno, seguito dal 35,8% al Centro e da un 29,8% al Nord.
Ulteriore questione rilevante in materia è quella riguardante il congedo parentale. La legge di bilancio 2022 ha stabilizzato sia il congedo di paternità obbligatorio, sia quello facoltativo, prima sperimentali. Ma, mentre il congedo di maternità obbligatorio è della durata di 5 mesi, il congedo obbligatorio di paternità è della durata di 10 giorni.
Secondo precise statistiche, tale disparità si evidenzia maggiormente se si analizza la differenza con la media europea. In Norvegia per esempio i papà possono beneficiare di quasi un anno di congedo con 46 settimane pagate al 100% o 56 settimane all’80%. In Svezia ogni genitore ha diritto a 12 mesi di congedo da condividere, ma sono obbligatori almeno due mesi a testa. In Danimarca c’è ancora una certa differenza tra il congedo concesso alle mamme e quello per i papà, su un totale di 52 settimane infatti, 2 sono del papà, 14 della mamma, il resto da spartire in modo equo. In Spagna sia le mamme che i papà hanno diritto a 16 settimane, pagate al 100%.
In Italia, dove la sproporzione è molto rilevante, il congedo parentale lo utilizzano 6 madri su 10, 1 padre su 10. Ciò in quanto, in assenza di congedo di paternità adeguato, sono le donne a dover ricorrere al part-time o alle dimissioni, nel momento in cui diventano madri.
L’analisi delle discriminazioni legate al genere presenti nel mondo del lavoro non può essere però limitata alla sfera della maternità. Non tutte le donne possono o desiderano essere madri, eppure la disciplina legislativa in tema di discriminazione di genere sui luoghi di lavoro è indirizzata prevalentemente a tutelare la maternità, vista come unico aspetto degno di attenzione da parte del legislatore. Le donne vengono considerate soggetti meritevoli di tutela solo in quanto madri, effettive o in potenza. Nel discorso pubblico la tutela della maternità sul luogo di lavoro è inscindibilmente legata al problema del calo delle nascite, come sua diretta e più preoccupante conseguenza. Oltre a rappresentare un ulteriore fattore di discriminazione per le donne che non hanno figli e che quindi si vedono private anche di questo strumento di tutela, legare il problema del calo demografico alla questione dell’occupazione femminile è frutto di una visione dei rapporti familiari anacronistica e arretrata, per cui le uniche responsabili della crisi demografica sono le donne, che rimangono le principali titolari dei lavori domestici e di cura nel contesto familiare, senza considerare il ruolo dei padri e senza fornire tutele a sostegno delle famiglie che prescindano da una visione ormai superata dei rapporti familiari nella cura dei figli.
A dimostrazione di ciò, basta guardare i dati sulla disoccupazione e sul precariato giovanile, che, nel contesto di un mercato del lavoro in cui il tasso di disoccupazione e di precariato rappresenta una criticità ormai cronica del sistema, con un ulteriore aggravamento a causa della pandemia, mostrano una sproporzione ancora più evidente in riferimento alle giovani donne.
Analizzando gli ultimi dati Eurostat disponibili (Eurostat, “Employment and activity by sex and age – 2020”, dati aggiornati al 24 febbraio 2022) per una comparazione della situazione europea, nella popolazione tra i 20-64 anni il tasso di occupazione totale nel 2020 era del 71,7%, in crescita rispetto a 10 anni prima (il tasso 2011 era del 67,1%). I tassi di occupazione variano però se si analizza la disaggregazione per genere: nel 2020, quello maschile era infatti del 77,2% (dal 73,4% del 2011), mentre quello femminile del 66,2% (dal 60,9% del 2011). Ciò significa che, seppur in diminuzione rispetto a 10 anni fa, ancora nel 2020, il divario occupazionale di genere era di ben 11 punti percentuali a sfavore delle donne. Al di là della media europea, i dati subiscono naturalmente delle variazioni a livello nazionale. Il dato complessivamente più significativo è che in nessun Paese dell’Unione il divario di genere nell’occupazione è risultato a favore del versante femminile della popolazione.
Secondo un’indagine del CNEL dell’ottobre 2021, le donne sarebbero: “Le ultime ad entrare, le prime ad uscire”. È questa la sintesi della condizione professionale delle donne nel mercato del lavoro, che tuttora persiste in Italia. [...] Last in -first out. Se si trasferisce questo concetto al mercato del lavoro italiano e lo si legge in termini di opportunità di ingresso nell'occupazione e di rischio di uscirne prima di altri, è facile individuare quali segmenti dell'offerta di lavoro risultino più deboli: i giovani, le donne e gli stranieri presentano tutte le caratteristiche per essere confinati nell'alone che circonda il nucleo più stabile dell'occupazione, costituito da uomini delle classi centrali d'età, se non le più anziane e di provenienza nazionale".
Da notare che anche in momenti di crisi del mercato del lavoro, come quella dovuta alla pandemia da Covid-19, il possesso di titoli di studio più alti favorisca i tassi di occupazione sia per gli uomini che per le donne, riducendo in parte il divario occupazionale. Secondo i dati Istat relativi alla situazione nel 2020, per quanto riguarda il tasso di scolarizzazione il livello di istruzione delle donne rimane sensibilmente più elevato di quello maschile: le donne con almeno il diploma sono il 65,1% e gli uomini il 60,5%, mentre le donne laureate sono il 23,0% e gli uomini il 17,2%. Questo vantaggio femminile, più marcato rispetto alla media Ue, non si traduce però in analogo vantaggio in ambito lavorativo: a parità di livello di istruzione infatti, il tasso di disoccupazione femminile risulta sempre comunque più elevato rispetto alla media maschile, anche se la forbice si riduce con il possesso del titolo di laurea.
Anche nel 2021, il mercato del lavoro si mostra poco generoso soprattutto con i giovani: è infatti nella fascia 15-24 anni che si registrano i tassi di disoccupazione maggiori. In tutte le classi di età, comunque, il tasso di disoccupazione femminile risulta più alto di quello maschile. Per quanto concerne il tasso di inattività tra la popolazione 15-64 anni, questo si attesta al 44,6% per le donne e al 26,4% per gli uomini, con una differenza notevole a sfavore del versante femminile. Se si guarda alle motivazioni di chi si trova in questa condizione, i motivi familiari vengono al primo posto per una donna su tre, il 33,6% e solo per il 2,9% degli uomini. Anche sotto il profilo dell’inattività la quota di donne risulta sempre superiore a quella degli uomini in tutte le classi di età.
Secondo uno studio elaborato all’inizio del 2022 a partire dai dati Inps sui contributi pensionistici, i ricercatori rilevano come i dati italiani sul mercato del lavoro, che gettano una luce sulle penalizzazioni femminili, in termini di occupazione e salario, successive alla nascita di figli, siano precedute da una situazione già poco equilibrata anche nelle fasi iniziali della carriera. Per le diplomate, i ricercatori osservano salari sistematicamente inferiori e un divario di genere che tende ad aumentare nel tempo. Inoltre, più spesso l’impiego delle donne è part-time (il 28%, a fronte del 12% degli uomini). Per le laureate, oltre ad essersi ormai da tempo affermata una netta prevalenza della presenza femminile nelle università, con le donne che rappresentano il 58,7% del totale dei laureati 2020 e il 50.5% dei dottori di ricerca, lo svantaggio post- laurea sul mercato del lavoro si presenta sia dal punto di vista occupazionale che sotto il profilo retributivo: a 5 anni dalla laurea gli uomini guadagnano in media circa il 20% in più delle donne. Inoltre le donne lavorano in misura relativamente maggiore con contratti non standard, come quelli a termine.
Al di là della quantificazione della retribuzione mensile media, un’altra differenza di genere, secondo i ricercatori, appare evidente: alle soglie dei 30 anni, gli uomini mostrano una traiettoria salariale ancora in crescita; quella femminile, per contro, si appiattisce, “come se il vertice fosse già stato raggiunto”. In ogni caso, è la conclusione dei ricercatori, le differenze esistono già ad inizio carriera e tendono ad aumentare nel tempo. È facile ipotizzare che il gap iniziale si ripercuota nelle fasi di carriera successive quando, ad esempio alla nascita del primo figlio, la coppia debba decidere quale dei due genitori dovrebbe rinunciare in parte (con il part-time) o del tutto al proprio lavoro. Anche per un mero calcolo economico, la scelta finirà col ricadere su chi ha un reddito da lavoro più basso, generando un circolo vizioso che tende ad escludere le donne dal mercato del lavoro”.
Sebbene la necessità di garantire la parità retributiva sia espressa nella Direttiva 2006/54/CE, l’effettiva attuazione di tale principio continua a rappresentare una sfida nell’UE. Individuando nella mancanza di trasparenza retributiva uno dei principali ostacoli alla parità retributiva tra donne e uomini, lo scorso marzo la Presidente Von Der Leyen ha annunciato che la Commissione presenterà la proposta di una direttiva sulla trasparenza salariale che si propone di combattere la discriminazione attraverso due strumenti: la trasparenza retributiva e la maggiore facilità di accesso alla giustizia per le vittime di discriminazione retributiva.
In Italia la legge di bilancio 2022 ha introdotto delle novità che lasciano sperare in una auspicata presa di coscienza del problema da parte del legislatore. La legge introduce modifiche in materia di pari opportunità in ambito lavorativo, nel tentativo di adeguare il quadro legislativo italiano ai principi sanciti a livello europeo. L’intento è quello di migliorare la trasparenza retributiva e incentivare le imprese al perseguimento della parità di genere attraverso l’istituzione di una certificazione che apre la via ad alcune forme di premialità.
La prima parte della legge 162\2022 modifica l’articolo 46 del Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (dlgs n°198\2006), che prevedeva l’obbligo per le aziende con più di 100 dipendenti di presentare ogni due anni un rapporto sulla situazione del personale. La soglia dimensionale delle aziende tenute alla rendicontazione è stata abbassata da 100 a 50 dipendenti, così da riflettere meglio la struttura produttiva dell’economia italiana, composta da una prevalenza di unità di piccole e medie dimensioni. La legge prevede infine la pubblicazione in un’apposita sezione del sito internet del Ministero del lavoro e delle politiche sociali dell’elenco delle aziende che hanno trasmesso il rapporto e delle aziende che non lo hanno trasmesso, esponendo le imprese che non ottemperano a una sorta di pubblicità negativa, prevedendo anche sanzioni in caso di mancata o mendace dichiarazione. All’obbligo della relazione sulla parità retributiva per le imprese con oltre 50 dipendenti, aperta tuttavia su base volontaria anche alle imprese con un numero inferiore di dipendenti, si accompagna l’istituzione di una certificazione della parità di genere. Le imprese che ottengono il certificato possono godere di uno sgravio contributivo. La certificazione può aprire anche la strada al riconoscimento di un punteggio premiale o costituire condizione per la partecipazione nel caso di gare d’appalto pubbliche.
Alla luce dei più recenti sviluppi normativi, sia sul piano nazionale che su quello europeo, sembra che siano stati fatti importanti passi nella giusta direzione. Rimedi efficaci per ridurre il divario salariale sono stati individuati nella trasparenza che le imprese devono garantire sia dal punto di vista delle assunzioni che della retribuzione salariale, e nella necessità di adottare misure che permettano di conciliare lavoro e famiglia non solo alle lavoratrici madri, ma anche ai padri. In questa direzione risulta quanto mai necessario estendere i congedi di paternità in modo da renderli adeguati rispetto alla media europea. La previsione dell’obbligatorietà del congedo di paternità introdotta dalla legge di bilancio 2022 segna un passo nella giusta direzione, ma la sua durata così breve rispetto al congedo di maternità è indice del fatto che il principale fattore di cambiamento che si rende necessario è di tipo culturale: occorre un superamento della concezione tradizionale per cui la donna è la responsabile primaria del lavoro di cura in ambito familiare e dei doveri che da questo derivano.
Giada Ranghi
Silvia Tansini
Con un team di avvocate e psicoterapeute
Aperto ogni lunedì dalle ore 16.00 alle ore 18.00
Via Siena, 2 – Roma
(presso l’Associazione Il seminterrato)
Ogni sostegno economico è importante!
La nostra asscociazione si fonda esclusivamente sull'autofinanziamento.
IT08Y0306909606100000176913